L’intervento di Maurizio Bolognetti su Ilva di Taranto

Maurizio Bolognetti e Alessandro Marescotti

Il 7 novembre di quest’anno, il quotidiano Avvenire riferiva della decisione delle autorità di New Delhi di chiudere tutte le scuole a causa di una persistente cappa di smog, che incombeva sulla città costringendo i cittadini ad andare in giro con delle maschere protettive.
Taranto, per carità, non sarà Nuova Delhi, ma a Taranto, nella città dei due mari, nei giorni in cui il vento proviene da nord-ovest, dall’area industriale per intenderci, scatta una sorta di coprifuoco e il sindaco è costretto a chiudere le scuole del quartiere Tamburi. Nei cosiddetti Wind Day, la città viene investita dalle polveri di minerale di ferro e carbon fossile stoccati nei parchi dello stabilimento Ilva, ma anche – come spiegano quelli di Peacelink – “dalle polveri di rifiuti speciali di vario genere, derivanti dal ciclo produttivo degli impianti” del siderurgico.

L’Ilva, con i suoi 15 milioni di metri quadrati, ha completamente fagocitato la città; incombe su Taranto e in sessant’anni di esercizio ne ha appestato le matrici ambientali con inevitabili e documentati riflessi sulla salute dei cittadini.

Parlare di Taranto e di Ilva significa parlare di pecore abbattute a causa della presenza di diossina nelle loro carni, di cozze al Pcb, di ordinanze di divieto di pascolo e coltivazione. Parlare di Taranto significa parlare di controlli ambientali per lungo tempo carenti, inadeguati o assenti. Parlare di Taranto e della vicenda Ilva significa parlare dei silenzi di un ceto dirigente locale che a lungo ha taciuto, non ha visto e non ha sentito. Parlare di Taranto significa parlare di un luogo bellissimo e ricco di storia, che da circa vent’anni è sito di bonifica di interesse nazionale, laddove a lungo – verrebbe da ricordarlo a Emiliano, Vendola e a coloro che dopo aver taciuto per lustri adesso si scoprono ambientalisti – è mancato sia l’interesse che la bonifica. Parlare di Taranto e di Ilva significa parlare di direttive comunitarie poste a tutela dell’ambiente, bellamente e reiteratamente violate, e di provvedimenti legislativi che hanno introdotto l’impunità per chi viola il Codice dell’Ambiente in nome di non so quale ragion di stato e di quale progresso. Parlo di Sin e inevitabilmente mi viene in mente che nelle acque superficiali e profonde dell’area Ilva, nel 2011, fu riscontrato un superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione per ciò che concerne inquinanti quali Arsenico, Cianuri, Benzopirene, Cromo esavalente, Cobalto, Mercurio, Piombo, Tricloroetilene, Benzene, Toluene, Cloruro di vinile, Nichel, ecc. ecc.

E a proposito di chi l’altro ieri faceva altro, viene in mente quel Nicky Vendola che nel 2010, sul numero zero della rivista “Il Ponte” edita da Ilva spa, affermava: “Dal mio primo incontro con l’ing. Riva sono cambiate molte cose. In primo luogo è cambiata la fabbrica”.
Solo a rileggerle certe dichiarazioni viene da sbellicarsi dal ridere, soprattutto pensando a tutte le prescrizioni dell’Aia/2012 non rispettate e al processo “Ambiente svenduto” in corso di svolgimento.
Rileggo Vendola e mi viene in mente quel Marco Pannella che negli anni ’90 affermava: “Taranto non è l’Ilva, è sbagliato appiattire la città sul suo stabilimento. Chi annuncia e chi prepara la guerra di Taranto vuol prendere per i fondelli i tarantini. Bisogna riflettere, riconcepire, valutare i costi economici del recupero, valutare i benefici di soluzioni alternative. A Taranto è stato negato un futuro altro e possibile non legato alla monocultura dell’acciaio.

Se questo insediamento industriale deve continuare a vivere, occorre fare in tempi rapidi ciò che non si è fatto negli ultimi 5 anni o negli ultimi 37 se penso, per dirne una, alla necessità di coprire i parchi minerali. Mentre Roma e Bari discutono, Taranto continua a respirare veleni. Non solo quelli dell’Ilva.

Fonte: Peacelink.it – https://www.peacelink.it/ecologia/a/44932.html

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