
Il 7 marzo 1977, dopo una manifestazione femminista a Civitavecchia promossa dai Radicali e dal Movimento di Liberazione della Donna (MLD), Maria Eugenia Roccella fu denunciata per “diffamazione a mezzo stampa” dal procuratore della Repubblica di Civitavecchia Antonino Loyacono.
All’epoca Eugenia Roccella aveva dato alle stampe il libro “Aborto – Facciamolo da noi”, con prefazione di un’altra “delinquente”: Adele Faccio, presidente del partito radicale nel 1975/76 e deputata per tre legislature, che nel 1975 ha pagato con l’arresto la sua dichiarazione pubblica di aver interrotto volontariamente una gravidanza, come parte della sua lotta nonviolenta per i diritti sessuali e riproduttivi delle donne.
Quasi mezzo secolo dopo, l’attivista radicale bollata come delinquente diffamatrice dal potere di allora è diventata il potere istituzionale di oggi, e ha assunto una responsabilità governativa come ministro incaricato di dare “pari opportunità” alle donne trans, alle donne che vogliono interrompere una gravidanza e alle donne che hanno figli in una famiglia omogenitoriale.
Da questo ruolo di responsabilità istituzionale, la ministra Eugenia Roccella ha ritenuto di bollare come “fascismo degli antifascisti” una contestazione di persone che si sono ribellate contro le “opportunità impari” riservate a queste categorie di persone, discriminate e limitate nell’esercizio dei loro diritti costituzionali e dei loro diritti umani fondamentali dal governo di cui fa parte la ministra ex attivista.
La scintilla che ha acceso la miccia della contestazione è stata una dichiarazione della ministra, convinta contro ogni evidenza statistica, fattuale ed esperienziale che “i medici obiettori non rappresentano un ostacolo per chi vuole abortire”.
In questa circostanza, 29 persone che militano nei movimenti “Extinction Rebellion” e “Non una di meno” sono state identificate e denunciate dalla Digos per “violenza privata”, non si sa bene a danno di chi, visto che lo stesso direttore del Salone del Libro di Torino, il contesto in cui si è consumata la contestazione, ha dichiarato in qualità di testimone oculare presente sul posto che le proteste non sono state accompagnata da atti violenti, come risulta del resto anche dai filmati raccolti in quella circostanza.
A rigor di logica non si configura neppure un “bavaglio”, come molti si sono affrettati a dichiarare a partire dalla ministra, perché nessuno ha tolto di mano il microfono alla ministra, che si è allontanata di sua iniziativa senza attendere la fine della contestazione, presumendo di avere un diritto di parola e di espressione indifferibile, assoluto e prevalente sull’esercizio di altri diritti, altrettanto legittimi, di altre persone.
Un diritto supremo che pretende di essere soddisfatto immediatamente e senza interruzioni, un diritto che a detta di alcuni non può ritenersi garantito nemmeno dalle continue esternazioni rilasciate dal ministro senza contraddittorio su tutti i principali organi di informazione giornalistica e televisiva, e nemmeno dalla sovraesposizione mediatica che ha fatto seguito alla contestazione, un diritto che renderebbe “fascista” chiunque voglia aprire bocca mentre il ministro vuole parlare, con l’intenzione “criminale” di portare il conflitto politico e culturale nei luoghi della cultura anziché relegarlo alle frustrazioni individuali o agli sfoghi sui social.
Ma passando dai diritti presunti dei ministri ai reali diritti sessuali e riproduttivi delle donne, popssiamo tracciare la differenza tra repressione, sicuritarismo, legalità è giustizia osservando che la repressione sguinzaglia le forze di polizia contro opinioni non conformi a quelle del governo.
Il sicuritarismo, invece, trascina in tribunale con accuse di violenza chi non contesta con le regole di ingaggio pretese dal ministro, ovvero con un finto “dibattito” invocato fuori tempo massimo, dopo aver negato il confronto ai sindaci che si sono lamentati delle leggi che li costringono a creare “orfani anagrafici” di famiglie omogenitoriali, cancellando con un tratto di penna genitori di orientamento sessuale non gradito al governo.
La legalità internazionale, dal canto suo, considera un diritto umano universale e inallienabile (come diretto corollario del diritto alla salute) l’accesso a servizi garantiti, legali e sicuri di interruzione volontaria di gravidanza, mentre la legalità costituzionale della nostra Repubblica impedisce di discriminare le persone in base al loro orientamento sessuale o alle loro scelte riproduttive.
Il senso di giustizia di tante persone per bene, infine, si ribella quando le denunce colpiscono chi sta dalla parte della ragione, raggiungono chi protesta per un’interruzione arbitraria di pubblico servizio (autolegittimata con un uso distorto, strumentale e violento del concetto di “obiezione di coscienza”, che non solleva il governo dall’obbligo di erogazione dei servizi sanitari), intimidiscono chi si solleva contro le violazioni dei diritti costituzionali e dei diritti umani universali. Il senso di giustizia di chi segue i diritti umani, e non le ideologie che li negano, viene umiliato e calpestato quando i guai non colpiscono chi compie gli abusi ma chi li indica, e i problemi con la legge raggiungono persone che chiedono solo il ripristino della legalità e l’accesso garantito a un servizio sanitario pubblico sicuro.
Un servizio, peraltro, che serve per salvare vite umane, stabilito per scongiurare la piaga mortale dell’accesso arbitrario e illegale a servizi privati improvvisati di interruzione di gravidanza, mentre chi nega questi diritti dai banchi del governo si atteggia a “difensore della vita” e vittima di una presunta e indimostrabile “censura fascista”.
Per citare Ruth Messinger, “non sono i ribelli a creare problemi, ma sono i problemi a creare i ribelli”. Ieri il problema del diritto all’autodeterminazione del corpo e del diritto alla felicità e alla costruzione di reti di affetti familiari a prescindere dall’orientamento sessuale ha creato quella che agli occhi dell’opinione pubblica era una diffamatrice. Oggi quel problema ancora irrisolto ha creato un gruppo di persone che agli occhi dei funzionari Digos di Torino sono dediti alla violenza.
Resta solo da sperare che anche tra i “delinquenti” di oggi si nasconda qualche ministro di domani, e che nel transito dal Salone del Libro di Torino al Parlamento, passando per le schedature della Digos, questo ministro in divenire riesca a non perdere per strada le buone idee che muovono le sue contestazioni, idee che spesso vengono smarrite nel pantano della “realpolitik”, lungo il tortuoso percorso che separa l’attivismo di popolo dall’azione di governo.
Osservando una raccolta delle esternazioni reazionarie, patriarcali, anticostituzionali e antistoriche della ministra in materia di diritti sessuali e riproduttivi, viene da pensare che se avessimo la macchina del tempo è molto probabile che la Eugenia Roccella del 1975, militante radicale femminista in lotta per il libero accesso ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza, avrebbe fatto le medesime contestazioni alla Eugenia Roccella del 2023, ministro affiliato a un partito neofascista che promuove leggi omofobe che generano “orfani all’anagrafe”, e promuove una cultura che discrimina le donne in base alle loro scelte riproduttive negando il loro diritto alla salute.
La levata di scudi per la presunta violazione del diritto alla libera espressione del ministro, dopo un quarto d’ora di fischi innescati da decenni di malapolitica e opportunità negate a donne e famiglie (anziché pareggiate contro le discriminazioni), ha unito testimonial di dittature saudite come Renzi, omofobi come Feltri, lanciatori di uova contro le forze di polizia come Salvini, assieme a un nutrito stuolo di “nipotini di Almirante”, guidati dalla capo del Governo.
Qualcuno di questi grandi campioni della libertà a intermittenza e dei diritti costituzionali a convenienza dovrà spiegarci se oltre al presunto diritto non differibile di espressione del ministro, da esercitare immediatamente e senza interruzioni, esistono anche i diritti sessuali e riproduttivi come codificati nel diritto internazionale e nelle leggi italiane, e il reale diritto non revocabile di espressione di chi può contestare i potenti senza essere costretto a dover subire intimidazioni e persecuzioni giudiziarie.
Che poi la dialettica tra antifascismo e fascismo in estrema sintesi si può ridurre a questo: riconoscere i diritti di tutti o solo quelli del potente di turno, del partito di maggioranza, della classe sociale dominante, dell’etnia maggioritaria, dell’orientamento sessuale prevalente e del governo in carica.
Fonte: Matita Rossa – http://gubitosa.blogautore.espresso.repubblica.it/2023/05/22/roccella/